Fuori dalla mischia: uno sguardo oltre l’ideologia no-border

Immigrazione – una tematica difficile quanto centrale nelle discussioni politiche di oggi giorno. Quando se ne parla sembrerebbe che la maggior parte delle volte le persone abbiano già investito in posizioni assolute, difficilmente discutibili e dove il pregiudizio alle critiche è frequente – tutti fattori per cui avere un dialogo è conseguentemente difficile se non impossibile. Argomento tosto si, ma non per questo dovremmo essere timidi nell’avere discussioni e cercare di elaborare soluzioni ai problemi che tale fenomeno comporta.

Quando si parla di confini, siamo solitamente indotti a fare riferimento a quelli di natura fisica (come quelli nazionali che dividono gli Stati), la politica di oggi, inoltre, alimenta spesso un immaginario fatto di reticolati, muri, filo spinato, etc. È bene, tuttavia, tenere a mente che non esistono solo confini di questo tipo. Oggi Il termine border, infatti, fa riferimento tanto ai confini di natura fisica quanto a confini di altra natura che potremmo definire di capitale, confini economici, insomma, che vengono solitamente regolati dagli accordi presi in particolare sul commercio e come nell’esempio dei mercati finanziari. Il NAFTA (North American Free Trade Agreement) abbatte il confine per capitale tra gli USA, il Canada ed il Messico, costringendo le attività economiche di quest’ultimo (in particolare l’agricoltura) a competere direttamente con tutto il nord America. Già che ci siamo, definiamo anche i due motivi diversi (ma spesso sovrapposti) per il quale esistono le migrazioni di massa: povertà, e guerra; quindi abbiamo migranti tanto per motivazioni economiche quanto rifugiati fuggiti da conflitti.

I risultati devastanti del NAFTA sono sotto gli occhi di tutti: venute meno le restrizioni sulle attività predatorie degli avvoltoi finanziari del nord America (USA e Canada), le condizioni di lavoro in Messico sono precipitate, allo stesso tempo, pesanti limiti sono stati imposti ai dispositivi che lo stato Messicano può attivare per salvare aziende locali, spingendo di conseguenza molti ed emigrare a nord per cercare migliori condizioni di vita – Nord, da cui, allo stesso tempo, i grandi business delocalizzano, proprio in direzione Messico, sfruttando il minor costo della manodopera, licenziando gli impiegati locali e quindi creando ulteriore disoccupazione negli Stati Uniti ed in Canada.

Questo può rendere -in parte- l’idea circa i ben poco virtuosi risultati ottenuti, oggi, dalla maggior parte degli accordi economici tra economie avanzate e quelle dei paesi in via di sviluppo, o che abbiano, comunque, anche solo un settore economico più debole, siano in America, Europa, Africa o Asia, il trend degli accordi commerciali in regime capitalista è questo. A partire da ciò, potremmo obiettare, allora, che forse non tutti i tipi di frontiera andrebbero aperti ma questa è più una puntualizzazione che altro.

Se il discorso sui confini si potesse limitare solo a capitali e mercati sarebbe tutto molto più semplice purtroppo non è così, solitamente quando parliamo di confini parliamo della vita di esseri umani in carne ed ossa, urge quindi un ulteriore chiarimento prima di procedere:

Nessuno a sinistra propone di lasciar morire persone in disperato bisogno di assistenza in mare o di freddo al di là di una barriera di filo spinato, oppure di sete in un deserto – l’umanità deve essere sempre al centro di qualsiasi politica che vuole gestire i problemi della migrazione, rispetto ai quali, tuttavia, vanno ben analizzate le cause senza accanirsi sui sintomi.

Altra puntualizzazione: quando si parla di migranti economici in questo articolo, ci si riferisce il più delle volte a quelle persone che non necessariamente non hanno mezzi di sostentamento nei loro paesi di origine, ma piuttosto sono attratte dall’idea di migrare in un’economia avanzata con il solo scopo di lavorare dove possono, e con i soldi guadagnati (che equivalgono ad una fortuna nell’economia del loro paese natale) dopo un dato tempo, ritornare da dove sono venuti ed avere un livello di vita più alto. Così come è il caso con molta dell’immigrazione dal sud America verso il nord, e dall’est Europa verso l’ovest.

È anche bene notare che il dibattito sull’immigrazione ad oggi è sempre fatto esclusivamente sulle navi di migranti in mare, porti chiusi od aperti, muri, deportazioni, etc. – ma questi sono solo un lato del fenomeno. Bisognerebbe piuttosto spostare il dibattito sul mondo del lavoro, sull’implementazione di leggi contro il lavoro nero e lo sfruttamento dei migranti, un salario minimo garantito per tutti i lavoratori, e sugli eventuali percorsi per permessi di lavoro e naturalizzazione. Ed allo stesso tempo in politica estera, opporsi attivamente ai trattati commerciali che impoveriscono i paesi da dove si emigra, e fare altrettanto con le alleanze militari (vedi NATO) e le partecipazioni ad interventi di guerra.

Detto questo, passiamo al punto che questo articolo vuole toccare: quali sono le motivazioni di chi a sinistra parla di “closed borders”? Ovvero chiede una regolamentazione del flusso dei migranti economici (non profughi) e riconosce l’immigrazione come un problema al quale bisogna cercare di trovare rimedio, differenziandosi in analisi da chi promuove un’idea di libero movimento delle persone, e quindi di frontiere totalmente aperte.

Il concetto è spiegato in maniera abbastanza semplice in questo paragrafo tratto dall’articolo di Angela Nagle “Il caso a sinistra contro le frontiere aperte” (link):

È facile capire perché la sinistra tutta vuole difendere immigrati clandestini dall’essere bersagli. E dovrebbe farlo. Ma agendo con il giusto impulso morale del difendere la dignità umana dei migranti, la sinistra ha finito per tirare troppo indietro la linea, difendendo effettivamente il sistema stesso di sfruttamento che è la migrazione.

Critiche alla sinistra, da sinistra

Jeremy Corbyn, segretario del partito Labour in Inghilterra.

Recentemente Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista, in un’intervista televisiva a LA7 ha decisamente sollevato un polverone facendo una dura critica ai sindaci sulla questione dei porti (vedi articolo), ed in tempi recenti ha più volte criticato le politiche mainstream sul tema (vedi intervista).

Non è il primo né probabilmente sarà l’ultimo politico di sinistra a tirare una frecciata alla linea open borders che una notevole parte della sinistra occidentale ha adottato negli ultimi tempi.

Secondo Jeremy Corbyn, segretario socialista del Labour inglese, nel marzo 2018, la Brexit porterebbe il vantaggio di impedire alle imprese di importare manodopera a basso costo per ridurre i salari dei lavoratori britannici (fonte). Questa affermazione scatenò non poche critiche a sinistra, con l’accusa di parlare come Nigel Farage.

Mr. Corbyn ha in seguito puntualizzato le sue dichiarazioni, affermando che l’attenzione dovrebbe concentrarsi sulla cessazione degli abusi nei confronti di lavoratori poco qualificati, contro il “grottesco sfruttamento” dei migranti da parte di alcune società britanniche, causa di “terribili tensioni” nelle comunità inglesi per via dei tagli ai salari, e sulla promozione di un maggior numero di assunzioni locali, il che, secondo lui, probabilmente ridurrà l’immigrazione (fonte).

Persino il socialista democratico Bernie Sanders, il senatore ribelle dagli States, ha varie volte mostrato la sua contrarietà alle teorie open borders, ad esempio in una sua intervista del 2015 durante le primarie per il Partito Democratico, alla domanda circa un eventuale, auspicabile aumento del livello di immigrazione permessa, Sanders rispose “queste sono proposte da fratelli Koch” (ovvero, imprenditori miliardari americani), e sono “proposte di destra“, ed ancora “sai a che livello è oggi la disoccupazione giovanile negli Stati Uniti d’America?… Pensate che dovremmo aprire le frontiere e importare un sacco di lavoratori a basso salario, o pensate che forse dovremmo cercare di trovare lavoro per questi ragazzi statunitensi?” (fonte), “aprire le frontiere significa sostanzialmente abbassare i salari in questo paese” (fonte), anche qui si alzò un polverone, e Sanders fu accusato di parlare come Trump.

Oppure, come scrive il filosofo marxista Slavoj Zizek sull’Independent (link all’articolo):

[…] il nostro grande problema etico-politico: come affrontare il flusso di rifugiati? La soluzione non è aprire le frontiere a tutti coloro che vogliono entrare, e fondare questa apertura nella nostra colpa generalizzata (“la nostra colonizzazione è il nostro più grande crimine che dovremo ripagare per sempre”). Se rimaniamo a questo livello, serviamo perfettamente gli interessi di coloro che alimentano il conflitto tra gli immigrati e la classe operaia locale.

[…] La “contraddizione” tra i sostenitori delle frontiere aperte e dei populisti  anti-immigrati è una falsa “contraddizione secondaria” la cui funzione ultima è quella di offuscare la necessità di cambiare il sistema stesso: l’intero sistema economico internazionale che, nella sua forma attuale, dà origine ai rifugiati.
Questo significa che dovremmo aspettare pazientemente un grande cambiamento? No, possiamo cominciare subito con misure che sembrano modeste, ma che tuttavia minano le fondamenta del sistema esistente, come un paziente scavo sotterraneo di una talpa. Che dire della revisione dell’intero sistema finanziario che inciderebbe sulle regole di funzionamento dei crediti e degli investimenti? Che dire dell’imposizione di nuove norme che impedirebbero lo sfruttamento dei paesi del terzo mondo da cui provengono i rifugiati?

[…] Nel momento in cui si comincia a pensare in questa direzione, la sinistra politicamente corretta grida immediatamente al fascismo.

E di nuovo dall’articolo di Angela Nagle:

Il fatto è che, la trasformazione della proposta “open borders” in una posizione di sinistra è un fenomeno abbastanza nuovo e contrasta in modo fondamentale gran parte della storia della sinistra organizzata. Infatti l’apertura delle frontiere è stata da sempre un grido di battaglia del grande business e del libero mercato di destra.

Un tweet della Coldiretti del Marzo 2019, periodo del dibattito sui porti chiusi, quando Salvini era al governo (link)

Governo apra i porti a 30mila migranti, servono per i raccolti: l’appello delle imprese agricole a Salvini
https://www.agrifoodtoday.it/filiera/migranti-stagionali-decreto-salvini.html

Il governo apra i porti, o comunque qualsiasi scalo possa servire a far arrivare migliaia di migranti. A chiederlo, stavolta, non è una ong, né l’opposizione di sinistra, ma la Coldiretti, una delle principali organizzazioni di agricoltori del Belpaese. Che tra l’altro viene considerata in ottimi rapporti con il leader della Lega, Matteo Salvini. O almeno, sembrano esserlo i suoi nuovi vertici.

Di altre citazioni ed articoli ce ne sono parecchi, ma per fare il punto bastano quelli riportati, ed a prescindere delle nostre opinioni personali sulle persone menzionate, possiamo comunque prenderne le parole come spunti di riflessione.

Che ad oggi, ci ritroviamo con una sostanziale parte della sinistra incagliata nella questione esclusivamente morale dell’immigrazione, paralizzata sul piano dell’etica, è un sospetto abbastanza comune. Conseguentemente, dal momento che questa non riesce a vedere il quadro completo – e globale -, si ritrova spesso a presidiare posizioni superficiali che più che altro hanno a che fare con il politicamente corretto; il rischio allora è non capire che questa posizione non è né assoluta, né necessariamente storicamente appartenente alla sinistra, e nemmeno tanto un esito dialetticamente dovuto della lotta di classe come invece si vorrebbe far credere.

Excursus storico e casistica dell’UFW

A destra Bobby Seale (fondatore delle Pantere Nere) ad Oakland con Cesar Chavez, leader della UFW.

Nel 1973, sull’altra riva della baia di San Francisco, a Oakland le Pantere Nere erano impegnate nel picchettaggio del locale supermercato della catena Safeway chiedendone il boicottaggio in solidarietà ai lavoratori della UFW (United Farm Workers, sindacato dei lavoratori agricoli statunitensi, in maggior parte di etnia latina) in sciopero contro l’industria dell’uva e delle verdure californiane. Safeway stava vendendo uva e verdure provenienti da aziende agricole che non permettevano la sindacalizzazione dei lavoratori, in altre aree del paese già uniti sotto la UFW nella lotta per rivendicare salari, diritti e tutele.

Il boycott ebbe un grande successo (in parte anche perché le Pantere Nere offrivano servizi navetta dalla piazzola di Safeway ad altri negozi di alimentari di zona), tanto che il Safeway chiuse pochi giorni dopo. Con questi sforzi, l’UFW ottenne risalto nazionale (fonte).

Video dagli archivi TV di San Francisco del picchetto:
https://diva.sfsu.edu/collections/sfbatv/bundles/208085

Durante lo sciopero dei lavoratori agricoli del 1973, come negli anni precedenti e successivi, la lotta si dimostrò essere piuttosto dura, ci furono molti colpi di scena, episodi di violenza, repressione, ed inganni da parte delle aziende per tentare di rompere le mobilitazioni, ma la determinazione e l’organizzazione dei lavoratori sotto la guida di Cesar Chavez ebbe la meglio, la UFW vinse la maggior parte delle battaglie, costituendo ancora oggi un punto di riferimento per i latinos negli Stati Uniti, e per i sindacalisti in tutto il mondo.

Gli eroi della comunità latino in un murales al Chicano Park di Los Angeles: Cesar Chavez (in grande al centro), i lavoratori della UFW (in basso con le bandiere rosse), Che Guevara, Fidel Castro (alla sinistra di Chavez) ai quale segue anche Frida Khalo, purtroppo non in foto. Lo slogan della UFW “Si se puede!” (Si, si può!) tra l’altro, è stata l’ispirazione per lo slogan (decontestualizzato) di Obama nel 2008 “Yes we can!”.

Uno degli stratagemmi più comuni di cui disponevano le grandi aziende per cercare di rompere gli scioperi era l’impiego a nero di immigrati messicani irregolari, questa era una pratica così usata dai padroni che gli United Farm Workers furono costretti a creare (sempre durante lo sciopero del 1973, in coordinazione al picchettare delle Pantere Nere nel nord America) una linea lungo il confine tra gli USA e il Messico per impedire agli immigrati messicani di entrare illegalmente negli Stati Uniti e potenzialmente compromettere gli sforzi di sindacalizzazione dell’UFW. Durante uno di questi eventi, in cui Chavez non era coinvolto, alcuni membri della UFW, sotto la guida del cugino di Chavez, Manuel, attaccarono fisicamente i migranti dopo che tentativi pacifici di convincerli a non attraversare il confine fallirono (fonte).

Non solo, parte integrante delle rivendicazioni avanzate durante quegli anni, e più volte l’oggetto stesso di mobilitazioni, erano proprio il fermare dell’immigrazione clandestina, vista da Chavez e compagni come strumento di boicottaggio delle lotte da loro portate avanti (in altre parole “strumento del capitale”), questo aspetto è quasi sempre omesso dai tributi ufficiali di oggi, una verità scomoda per una sinistra liberale che strizza l’occhio non più ai lavoratori oppressi ma genericamente, alle minoranze etniche negli States – un esempio di questo revisionismo storico è il film del 2013 “Chavez” (articolo NYT).

Chavez, foto della UFW, e membri della milizia “Bettetti Bruni” di oggi e ieri (l’equivalente latino delle Pantere Nere).

È scontato, ma allo stesso tempo importante, specificare che Chavez non era – come nessuno dovrebbe essere a sinistra – contrario all’immigrazione di massa per motivi etnici o di identità nazionale, atteggiamento tipico delle forze politiche a destra (alla quali –quindi erroneamente- viene solitamente paragonato chi da sinistra critica l’agenda open borders), Chavez era, infatti, promotore della legalizzazione degli immigrati clandestini che avevano intenzione di rimanere negli USA, che non erano semplicemente lì per fare soldi a discapito delle lotte altrui e dei problemi nel proprio paese natio.

Allora quale esempio migliore per cercare di smuovere il pensiero oggi, se non quello delle dure e reali esperienze di lotta di questi sindacalisti e proletari alle prese con il fenomeno dell’immigrazione irregolare usato contro di loro come una clava dal padronato, immigrazione proveniente per giunta dal paese da dove arrivavano in maggior parte i loro stessi genitori e nonni.

Certo i tempi sono cambiati, ma non le dinamiche di sfruttamento in regime capitalista. L’esempio storico riportato è utile perché fornisce una casistica molto chiara circa il ruolo che l’immigrazione può avere sui meccanismi che regolano il rapporto tra lavoratore e azienda, non a caso i sindacati di ogni paese si sono spesso opposti alla migrazione di massa, sulla base dell’elementare deduzione: maggiore importazione di lavoratori illegali corrisponde a minori salari, quindi indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori e maggiore sfruttamento.

Tempi moderni

Migranti disoccupati a Londra aspettano all’alba per strada di essere caricati per una giornata di lavoro a nero da qualche ditta edile di zona.

Se oggi abbiamo le 8 ore lavorative (anziché 10, o 12, o 14!) dobbiamo ringraziare chi in tempi passati ha lottato, ed in tanti casi ha anche dato la vita (come i morti di Chicago nel 1886 – link). La rivendicazione della riduzione delle ore di lavoro andava incontro ad un doppio obiettivo per i lavoratori: dare a ciascuno una vita più decorosa, diminuendo il carico di lavoro che gravava su ciascuno quanto fare anche in modo che ci fosse più lavoro per tutti – i proprietari delle fabbriche si opponevano a questa rivendicazione operaia perché sapevano che con la giornata di lavoro più lunga avrebbero avuto bisogno di meno posti di lavoro, potendo così contare, alla bisogna, su una pletora di disoccupati permanenti, il famigerato “esercito industriale di riserva” del Capitale di Marx.

Non si può aggirare il fatto che il potere dei lavoratori organizzati si basa per definizione sulla loro capacità di limitare e ritirare l’offerta di lavoro, il che diventa impossibile se un’intera forza lavoro può essere sostituita facilmente ed economicamente. L’apertura delle frontiere e l’immigrazione di massa sono quindi potenzialmente una sconfitta in tali ottiche.

Gli attivisti ben intenzionati di oggi che professano l’apertura delle frontiere corrono il rischio di diventare funzionali al grande business, ed il feroce assolutismo morale di cui si armano che considera ogni limite alla migrazione come un male indicibile, di fatto denigra la resistenza manifestata in tutto il mondo sviluppato da persone svantaggiate a questo fenomeno, spingendola nelle braccia dell’estrema destra.

Si potrebbe argomentare quindi che: il radicalismo delle frontiere aperte va in ultima analisi a beneficio delle élite dei paesi più potenti del mondo, disprezza il lavoro organizzato, mette lavoratori contro lavoratori, e deruba il terzo mondo di professionisti disperatamente lì richiesti – questo un altro punto importante che viene spesso sorvolato, il cosiddetto brain-drain (la fuga di cervelli): le frontiere aperte denudano i paesi in via di sviluppo dei loro migliori e più brillanti cittadini, per fare un esempio, ad oggi ci sono più medici etiopi che praticano a Chicago che in tutta l’Etiopia, un paese di 80 milioni di persone dove il polio ancora uccide e paralizza i bambini, insomma se un etiope vuole vedere un medico è fregato, perché tutti i dottori sono a Chicago! (fonte).

Bisogna in ogni caso evitare quanto più possibile il wishful thinking (pensiero illusorio/desideroso) di cui cade vittima sia la destra quando crede che l’immigrazione si possa fermare con l’innalzamento di barriere fisiche (come il muro di Trump) e negando l’assistenza umanitaria, ma di cui è vittima anche la sinistra quando pensa che aprire completamente le frontiere possa essere in qualche maniera plausibile, o peggio, che non esistono crisi migratorie, o che in qualche maniera la migrazione umana sia qualcosa di naturale.

L’immigrazione è un nodo tosto da sciogliere, ma delle vie esistono, ed è compito della sinistra iniziare ad avere un dibattito senza assolutismi morali per indicarle.
Alcuni punti di partenza potrebbero essere:

Politica interna:

  • Chiedere l’applicazione di leggi sui datori di lavoro piuttosto che sui migranti, rivendicare un salario minimo garantito in ogni settore, che possa evitare quindi l’asta al ribasso dei salari, come accade quando si ha a che fare con lavoratori migranti, con conseguente abbassamento degli stipendi di tutti.
  • Sempre sulla stessa linea: invece di criminalizzare la clandestinità, chiedere che venga reso difficile per le imprese sfruttare i clandestini, applicando le leggi che mettono al bando il lavoro nero.
  • Chiedere restrizioni all’assunzione di personale in altri paesi da parte di aziende locali.
  • Ed anche opporsi a delocalizzazioni ed outsourcing, il tutto in favore dell’assunzione di cittadini del proprio paese e migranti residenti che hanno permessi di lavoro.
  • Fare campagne per il cambiamento dei sistemi finanziari di investimento e speculazione di mercato, che portano a squilibri nell’economia e concentrazioni di capitale in mani private.
  • Rivendicare piani di lavoro alla new-deal per contrastare la disoccupazione, prendendo anche spunto da progetti come il “piano di Riace”.
  • Lottare per la creazione di percorsi ed opzioni legali per l’acquisizione di permessi di lavoro o di cittadinanza, per chi ha i requisiti e l’interesse a rimanere nel paese di destinazione.
  • Punto focale nonché spinoso: accettare come categorie valide i rifugiati, ma non tutti i migranti economici – e qui siamo al nodo del dibattito.

Politica estera:

  • Opporsi ad accordi internazionali come il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership – proposta di accordo per un mercato comune tra Stati Uniti ed UE), NAFTA e leggi simili nella UE ed altrove, che aprono i mercati tra paesi a discapito delle economie più deboli, peggiorando condizioni lavorative in questi paesi e creando pretesti all’emigrazione.
  • Al loro posto, avviare accordi commerciali di scambio equo, con clausole di investimento in infrastrutture nei paesi meno sviluppati.
  • Sostenere la chiusura delle frontiere dei capitali e dei mercati tra paesi avanzati e paesi in via di sviluppo quando questo genere di clausola non è centrale agli accordi.
  • Opporsi agli interventi militari stranieri mossi da interessi economici ed imperialistici, che peggiorano le condizioni non solo di lavoro ma di vita, nei paesi colpiti dai conflitti.
  • Opporsi alle alleanze militari (vedi NATO) che necessitano di conflitti e guerre per giustificare la loro esistenza stessa.
  • Sostenere i movimenti che si oppongono all’emigrazione dal proprio paese, e rivendicano la sovranità dei propri governi spesso ancora sotto influenze coloniali (esempio – ed anche il video, che si consiglia di guardare per intero).

Per citare ancora Angela Nagle:

Le frontiere aperte non hanno un mandato pubblico, ma le politiche di immigrazione che impongono l’onere dell’applicazione della legge sulle aziende (leggi sul lavoro) anziché sui migranti (usando le forze dell’ordine) attirano un sostegno schiacciante. Ad esempio, secondo un’indagine del Washington Post e dell’ABC News, negli Stati Uniti il sostegno all’uso obbligatorio del sistema federale di verifica dell’occupazione (E-Verify), che impedirebbe ai datori di lavoro di sfruttare il lavoro illegale, è di quasi l’80% (fonte) – più del doppio del sostegno alla costruzione di un muro lungo il confine messicano. Allora perché le campagne presidenziali ruotano intorno alla costruzione di un vasto muro di confine? Perché gli attuali dibattiti sull’immigrazione ruotano intorno a controverse tattiche dell’agenzia federale ICE che dà letteralmente la caccia ai migranti, specialmente quando il metodo più umano e popolare di imporre ai datori di lavoro il compito di assumere manodopera legale è anche il più efficace? La risposta, in breve, è che le grandi lobby commerciali hanno bloccato e sabotato gli sforzi come E-Verify per decenni, mentre la sinistra open borders ha abbandonato ogni seria discussione su questi temi.

Open borders ad oggi, potenzialmente altro non è che una globalizzazione della povertà, e fornendo una copertura involontaria per gli interessi commerciali dell’élite dominante, la sinistra rischia una significativa crisi esistenziale, poiché sempre più persone comuni disertano la moderazione in favore dei partiti di estrema destra.

Che ci piaccia o meno, i livelli radicalmente trasformativi della migrazione di massa sono impopolari in ogni settore della società e in tutto il mondo. E le persone tra le quali è impopolare, i cittadini, hanno il diritto di voto. Così la migrazione presenta anche sempre più spesso una crisi che è fondamentale per la democrazia.

Un ultimo chiarimento in chiusura: questo articolo avrà raggiunto il suo scopo se in minima parte riuscirà nell’obiettivo di scalfire il muro di gomma creato attorno al tema migratorio dalle correnti oggi mainstream nella morente sinistra, contribuendo allo svilupparsi di un dibattito franco e libero tra posizioni discordanti senza necessariamente ricevere indietro tabù, dogmi, assoluti e verità preconfezionate. Se il solo instillare un ragionevole dubbio ci fa passare da eretici, tutto questo ci deve portare anche a chiederci che cosa sia andato storto nel nostro ambito politico negli ultimi anni, spronandoci proprio a dare pubblica voce ai nostri dubbi.

C’è chi è a favore dell’immigrazione, e c’è chi è contro i migranti – auspicabilmente bisognerebbe articolare posizioni contro l’immigrazione ma non contro i migranti, un po come essere contro la povertà ma non contro i poveri.

In questo momento di crisi, la posta in gioco è troppo alta per continuare a sbagliare, speriamo si possa dibattere in maniera costruttiva, e che dalle parole di tale dibattito possano nascere proposte per le linee guida della politica del domani.

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Il dibattito, con tutti i punti elencati sopra, con l’aggiunta di altri ed anche di tutte le argomentazioni pro open border, si svolgerà sulla piattaforma Kialo https://www.kialo.com

Per accreditarsi e partecipare inviaci un messaggio sulla pagina Facebook oppure per email voxkomm@inventati.org spiegando chi sei e perché vuoi partecipare. Se eventualmente la maggioranza dei partecipanti al dibattito in vorranno, la discussione potrà essere resa pubblica.

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